I Millennials stanno ballando sul Titanic?

Parlando ieri col mio amico millennial Marcello, lui mi diceva che avevo esagerato nel mio fortunato articolo Pecore o Laureati? nel descrivere il mondo del lavoro come una specie di invivibile inferno.

Io gli ho risposto che certamente non è sempre così, che ci sono ambienti sani e ambienti malati, uffici dove è bello lavorare ed altri dai quali la cosa migliore è fuggire. E tutte le possibili vie di mezzo.

Soprattutto, parlando degli ambienti più “infernali”, quello che lo studente ancora non sa è che richiedono una notevole resistenza mentale e solide competenze relazionali per riuscire a galleggiare nella tempesta. Tutte cose che certamente non vengono insegnate a scuola, se non tangenzialmente. Dal tuo superiore che ti fa una sfuriata fino al tuo collega che sbaglia qualcosa per danneggiare te.

La prova di coraggio del terzo millennio non è quella di affrontare un nemico in battaglia (per fortuna!) ma è psicologica. Non per questo più facile, si intende.

Comunque sia il mio amico ha voluto scrivere le sue personali considerazioni sul mondo del lavoro, a complemento del mio articolo.

Che poi, oh: io non sarò l’alfiere dell’ottimismo, ma anche lui decisamente non scherza. Ma questa è la realtà: meglio aprire gli occhi!

Ascoltiamolo, perché io da sempre ne ammiro la grande capacità di critica e di analisi.  Un po’ meno quando utilizza il termine “chiliastico” che ancora mi domando cosa significhi, e sì che non ha nemmeno 30 anni


 

Credo che gran parte dei ragazzi e ragazze nati dopo il 1980 – i cosiddetti Millennials – vivano o si siano ritrovati a vivere in una sorta di limbo (lavoro precario/sottopagato/disoccupazione/mancanza di prospettive di medio-lungo termine) che può avere contorni addirittura drammatici alle volte. E la cosa non si limita soltanto rispetto al necessario processo volto all’indipendenza economica, all’emancipazione dalla casa dei genitori e dalle loro regole per la creazione di una vita propria, ma assume una valenza sostanzialmente esistenziale. Nel senso di “Senza un lavoro non sono niente, io non esisto, non ho un posto nella società”.

Millennials Social

La cosa divertente però è che non è sempre andata così: tutte le società funzionanti (alias produttive) sono fondate sul lavoro. Le società funzionanti possono essere eque soltanto se riescono a creare, tramite una struttura di welfare state, percorsi volti a neutralizzare fenomeni di emarginazione sociale e quindi, con un discorso utilitaristico terra terra, a far stare male meno persone possibili. Nella chiliastica storia occidentale credo che si sia voluto affrontare seriamente questo aspetto soltanto nel quarantennio che va dalla metà degli anni ’50 alla metà degli anni ’90. Dopo qualcosa è cambiato.

Ma non più di tanto. Anche negli anni ’70 continuava ad esserci una massa di emarginati sociali (il lavoro è innanzitutto attitudine: a nessuno è mai venuto in mente che semplicemente alcune persone non sono assolutamente predisposte a lavorare: e quindi cosa sono, parassiti, tenie, zecche?) che almeno poteva usufruire di paracaduti sociali: tuttavia, in una società ancora tutto sommato classista, ad avvalersi di questi aiuti erano persone povere, che non avevano studiato e che sostanzialmente non potevano avere un futuro, nemmeno nella società spendacciona del welfare state degli anni ’70 (però potevano, come si è detto, sopravvivere; in taluni casi anche dignitosamente).

Fantozzi

Ora invece si vive in una situazione paradossale: il mito per cui il genitore artigiano/muratore/contadino che si era fermato alla terza media, ma che ha lavorato tutta una vita per permettere ai figli di studiare (e avere così, sulla carta, un futuro migliore) si è rivelato un boomerang pazzesco: se dagli anni ’60 in poi c’è stata in Italia un’impennata del livello di scolarizzazione medio (quasi tutti, al giorno d’oggi, hanno incorniciata una laurea almeno triennale sulla parete della propria cameretta) e che ha avuto il culmine proprio negli ultimi quindici anni, non si può non evidenziare come la situazione dal punto di vista di lavoro/opportunità lavorative sia deteriorata. In maniera cinica e classista uno potrebbe anche pensare che l’apertura totale dell’Università sia stato un vero e proprio de profundis rispetto alla validità di un percorso scolastico completo. Qualcuno parlava di dare valore legale alla laurea, ma non credo che nel contesto italiano abbia molto senso e porterebbe più iniquità che altro.

Nessuno vuole ammetterlo, ma se il problema fosse una sorta di entropia del mercato del lavoro (del tipo che non si possono occupare più di un tot di persone ecc.)? E che pertanto la creazione delle svariate tipologie di contratti parasubordinati e l’introduzione del concetto di flessibilità sia volta soltanto ad accrescere la produttività della singola azienda, senza preoccuparsi dell’esistenza dei singoli individui che la compongono (e qui se ci fosse il Diego Fusaro della situazione ci potrebbe intrattenere con un bel bla bla bla marxista sul vincolo di dominazione, la dittatura del capitale ecc.)?

In questo quadro di stallo del mercato del lavoro e sociale, aggiungiamoci elementi quali l’aumento della speranza di vita (e quindi aumento dell’età pensionabile), l’informatizzazione del lavoro (che richiede meno manodopera), la crisi economica (e quindi del welfare state), una globalizzazione selvaggia (tutta a favore delle poche corporation in frode alla collettività) ed eccoci qua: conflitti orizzontali (la guerra fra poveri tra disoccupati e immigrati/stranieri) e conflitti verticali (quello generazionale dei giovani contro vecchi).

Giovani contro anziani

Ma proprio riguardo al conflitto generazionale di cui si parla spesso troppo e a sproposito (un dialogo tra sordi: da una parte i figli sono stati letteralmente salvati dai risparmi e dal lavoro pregresso, di quando ce ne erano le possibilità, dei genitori; dall’altra i genitori che dipingono i figli come dei perditempo rammolliti e sfaticati, incollati tutto il giorno sullo smartphone) ecco la cosa che mi infastidisce più di tutte: la sicurezza che i ragazzi di venticinque/trent’anni che ora giustamente si lamentano del mancato ricambio generazionale che si indignano per i vecchi avidi e corrotti ai vertici del nostro sistema che non danno opportunità e che non dividono la loro ricchezza con la collettività (spesso gente che aveva marciato con il pugno chiuso negli anni settanta), beh questi stessi miei coetanei, quando tra trent’anni saranno dall’altra parte, si comporteranno allo stesso modo, dimenticando di essere stati giovani e tutti i problemi che ne derivano. E scaricheranno ogni problema e frustrazione sui giovani che verranno. Funziona sempre così, con poche e piacevoli eccezioni. Del resto è la storia umana.

E infine, in tutto questo caos, c’è l’Io, l’aspetto individuale delle persone: sì perché l’esperienza di ogni singolo individuo si raffronta nel rapporto tra mondo dell’Io con il mondo Esterno, cioè con tutto quello che è all’infuori di me stesso (gli altri le relazioni, la società, le regole, compreso tutto questo gran fottuto sproloquio sul mercato del lavoro vattelapesca).

E vedendo quello che c’è intorno a noi, lo scenario può essere abbastanza deludente se uno ne ha consapevolezza: ma anche se uno non ce l’ha, non è tanto meglio. E non mi riferisco soltanto alle deprimenti prospettive che può avere un giovane oggi se non ha particolari aiuti/conoscenze.

La grande questione, insomma, non sta soltanto nel riuscire a trovare ad avere un lavoro stabile, formare una famiglia, amare, vivere serenamente, ma investe qualcosa di più profondo, ed è quell’attitudine di cui parlavo prima, e che è, innanzitutto, attitudine a vivere.

Non sono certo che questo argomento venga affrontato con il dovuto approfondimento. E usando le parole di Oswald Spengler, credo che in questo consista il Tramonto dell’Occidente: non è una cosa solo morale ma veramente esistenziale. È proprio una sensazione che siamo tutti qui, nell’ampio salone del Titanic, con l’orchestra che suona ancora. Sulla pista qualche coppia fa un ultimo passionale valzer, ma il resto, vedendo l’iceberg su cui la nave sta andando a sbattere, è in fuga; i più fortunati con le scialuppe di salvataggio, tutti gli altri buttandosi nell’oceano sconfinato.

futuro, lavoro, millennials, precarietà, titanic

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3 Commenti. Nuovo commento

  • Francesco Relandini
    19 Novembre 2017 22:11

    Un tema interessante di questo articolo credo sia quando si parla di chi, per motivi fisici e psicologici, non è in grado di lavorare o forse non di lavorare come impone l’attuale competitiva società. Ma forse è proprio il modello che è troppo spietato, competitivo, scarsamente umano? Va a finire che il da te citato Diego Fusaro ha proprio ragione…

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  • L’articolo 1 della costituzione dice “l’Italia è una repubblica fondata sul LAVORO… quindi è il lavoro la cosa più importante dell’Italia… ci dovrebbe essere per ognuno di noi… se io mi presento a un colloquio aziendale, molto spesso è perché dal mio curriculum posso potenzialmente essere adatto a lavorare in quel campo, e quindi l’azienda mi ha telefonato per fare il colloquio… se poi non mi assumono è perché ci siamo presentati in 10, ma all’azienda ne serviva solo uno… quindi è sbagliato dire “non mi hanno preso perché sono uno sfigato”, ma bisognerebbe dire “non mi hanno preso perché NON SERVIVO” … all’azienda ne serve solo uno… cioè NON SERVE che LAVORIAMO ma serve che UNO, IL PIÙ BRAVO, LAVORI… se in un concorso pubblico si presentano 15000 persone e lo Stato mette 100 posti, quest’ultimo ci sta dicendo: NON SERVE CHE LAVORIATE perché il lavoro c’è solo per 100 persone, per le altre NON C’E’ DA LAVORARE…
    ovviamente non possiamo avere 2 milioni di vigili del fuoco, oppure obbligare il titolare di una piccola azienda ad assumere più personale del necessario…
    però ogni volta che si va a fare un colloquio non si è mai da soli… sarebbe normale dire “chi non viene preso lì magari verrà preso la’”, ma poi non è così… quindi il lavoro fondamentale NON C’È… uno potrebbe dire “c’è da lavorare, ma molti lavori gli italiani non li vogliono fare, come fare le badanti, andare a tagliare l’erba, ecc” … ma lì è già troppo tardi, perché c’è gente che è messa ancora peggio di noi e che quindi è disposta a farli a uno stipendio di tre cifre al mese.. quindi se io non vado a fare il badante non è perché sono pigro, ma perché mi proponi un lavoro dequalificante, senza prospettive, e con 800 euro al mese; dammene 1500 e ne riparliamo… quindi qual’e’ la soluzione che dicono sempre anche i politici in campagna elettorale? Visto che non c’è da lavorare, la soluzione è quella di CREARE POSTI DI LAVORO… è talmente importante il lavoro che non lo si mette mai in discussione… piuttosto che modificare alcuni suoi aspetti, si vuole ricrearlo, così avremo 101 marche di dentricio anziché 100… 8 ore al giorno per 40 anni, non è normale… se i guadagni delle aziende crescono e le persone sono sempre più povere, non è normale… se una volta si lavorava 12 ore, poi si è passati a 8 e non è successo nulla, ma anzi la produttività è aumentata a dismisura, perché non si può diminuire ancora di altre 4 ore? Volete cambiare l’inno d’Italia? Cambiate l’art.1

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    • Francesco Relandini
      22 Novembre 2017 19:00

      Nazionale mi è piaciuto molto leggere il tuo commento perché va a toccare questioni sensibilissime, di cui lo Stato sembra non volersene occupare. Il termine che potremmo utilizzare è “allocazione ottimale delle risorse”. Con qualche tocco di quel fantastico pensatore che è Silvano Agosti.

      A me piace sempre fare l’esempio dell’isola sperduta: abbiamo 100 persone nell’isola, 70 sono in età da lavoro e noi magari ne facciamo lavorare 40 e le altre 30 stanno nella loro capanna tutto il giorno a non far niente. Avrebbe senso? Certo che no!

      Ma non mi risulta che lo Stato italiano si occupi in un qualche modo di risolvere il problema. Addirittura adesso con computer, digitalizzazione e macchine, quello che un tempo avrebbero fatto 3 persone lo può fare una sola. E le altre 2 le mandiamo a spasso?

      Ecco perché è importante conoscere il contesto in cui si vive, come ho scritto nel precedente articolo “Pecore o Laureati?” Non per fare le vittime, non per lamentarsi, ma per conoscere il campo di gioco.

      E sarebbe bello se nel 2018, dopo qualche mese che avrai lavorato, scriverai tu stesso un articolo sulle tue prime esperienze lavorative, belle o brutte che siano, sarebbe fantastico…

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