Pecore o Laureati? Io e il mondo del lavoro 10 anni dopo…

Mi sono laureato nella magistrale in Scienze della Comunicazione pubblica, sociale e politica 10 anni fa, nel luglio del 2007. Erano gli anni del boom di internet e in particolare dell’esplosione dei social e del web 2.0. Il momento ideale – direbbe qualcuno – per laurearsi in comunicazione.

laurea festeggiamenti

Su questo chiedo al lettore di smorzare il riso. Pochi mesi dopo, nell’autunno del 2008, scoppia la cosiddetta crisi dei subprime e il mondo del lavoro, almeno in Italia, non sarà più lo stesso. Augurandoci, come giusto, che detta crisi possa finire, almeno prima di quando noi laureati del 2007 andremo in pensione.

Ricevo in quei giorni autunnali del 2007 una mail di un mio compagno di università, di nome Dino, che lamenta le difficoltà che sta incontrando dopo la laurea. Difficoltà a trovare lavoro nonostante il titolo, lavori sottopagati, incarichi non pertinenti con il titolo di studio.

Ecco allora che io, laureato in comunicazione da pochi mesi e in quel momento scarsamente occupato, mi metto al pc e scrivo al mio amico una lettera. 10 anni fa appunto. Senza ancora aver davvero lavorato in vita mia, scrivo quelle righe con passione e secondo quello che ritengo giusto. Ho 28 anni, del resto.

Ma cosa scrissi a Dino? Lo riporto qui di seguito, identico, e dopo scopriremo insieme cosa il me stesso del 2017 avrà da dire al me stesso del 2007.

Sembra Ritorno al futuro, e in un certo senso è proprio così.


Pecore o Laureati?

Caro Dino,
innanzitutto auguri perché le tue attuali difficoltà possano passare presto.

La mail che mi mandasti mi è di ispirazione per alcune banalissime riflessioni sull’attuale mercato del lavoro. Inizio da una domanda: tu sei un lupo (metaforico) e trovi innanzi a te una pecora, che fai?

pecora

La mangi, anzi, la sbrani, la divori. Così fan tutti. E se tu sei un’azienda privata, e il legislatore mette innanzi a te una legge che ti consente di assumere gente (quasi) gratis, tu che fai? La assumi, con le ben note modalità. E se non lo fai, i tuoi concorrenti ti fregano, perché si avvaleranno di manodopera decisamente economica, e alquanto redditizia.

Ma come? Redditizia gente che lavora con te 3 mesi e poi se ne va? Come fa a diventare brava in quel lavoro o professione? Certo che sì, i lavoratori precari sono meno efficienti di coloro che lavorano in un posto da 30 anni, ma…

Riprendiamo una nozione di economia politica. Se la domanda di lavoro è alta e l’offerta piuttosto scadente, che succede? Alcune semplici cosette:

  1. Io lavoratore accetto qualsiasi offerta capestro mi facciano, perché devo lavorare. Accetto contratti schifosi, nessuno mi offre di meglio.
  2. Io lavoratore sono disposto a fare lavori che non c’entrano nulla con i miei studi, e francamente sgodevoli, ma non ho alternative!
  3. Cruciale: io lavoratore precario mi faccio il mazzo, do il 101%, perché solo così ho (piccole) speranze di essere assunto. Come co.co.pro, lavoratore a progetto o sfigato. E si ricomincia da capo. Le aziende godono: manodopera a basso costo ma (spesso) stakanovista.

Da queste lapalissiane considerazioni emerge che il rapporto fra lavoratori (giovani) e aziende si è completamente sbilanciato a favore delle seconde. Siamo tornati ai tempi di Ebenezer Scrooge.

Ebenezer Scrooge

Ma in fondo non dovremmo essere troppo pessimisti. Perché mi guardo intorno, nelle aziende con cui collaboro. E vedo che la maggioranza delle persone che lavora lì ad eternum è ben più sprovveduta di me novellino. Abbiamo una laurea, siamo tutt’altro che minchioni. E allora lancio il grido:

University Pride!

Perché certo, adesso siamo (quasi) tutti nella merda (e non solo metaforicamente), ma diamine, ci faremo valere! Le imprese dovrebbero far la fila per noi! Dovremmo essere noi a scegliere che lavoro fare. E i lor signori che ora occupano gli scranni, prima o poi dovranno andarsene in pensione.

Pazienza e costanza: questa, per me, la ricetta necessaria e sufficiente oggi. Affermo con forza che non mi sento fesso, se credo tenacemente che chi è bravo emergerà, senza bisogno di svendere la propria dignità. Io ci credo.

Cordiali saluti, Dott. Francesco Relandini


Che emozione rileggere oggi la mia mail!

Pensavo di essere stato più ingenuo. Però non so se avessi o meno ragione nello scrivere quelle cose. Anthony De Mello dice che una delle cose più difficili per un essere umano è ammettere di avere torto.

Ma ecco le mie considerazioni, 10 anni dopo e molti mesi di lavoro vissuti fra pubblico, privato e terzo settore…

Mi ha colpito ovviamente la grinta di quelle righe. La volontà di non farsi sballottolare qua e là da chi ha il potere su di te. Sono stato poi grintoso nella mia vita lavorativa da dipendente? Abbastanza, ma certo non sempre, a volte per nulla. Quello che il laureato spesso non conosce è la particolare condizione del lavoratore dipendente. Accettare di avere qualcuno sopra di te che ti indirizza e ti giudica. Da cui a volte dipende la prosecuzione del tuo rapporto di lavoro, e il tuo stesso stipendio. Paolo Villaggio con il personaggio di Fantozzi aveva capito tutto.

Peccato solo che da bambini guardiamo Fantozzi come se fosse fiction, poi da laureati scopriamo con orrore che quei film raccontano la realtà!

I ragionamenti di quella mail evidenziano la ribellione del giovane contro una condizione che non vuole accettare! Come ha sagacemente illustrato Matteo Pascoletti in uno splendido articolo su Valigia Blu, in questi anni una certa stampa ha trasferito un problema collettivo, quello della mancanza di lavoro o di una scadente offerta di posti, in un problema individuale, ovvero la (im)maturità psicologica di chi non lavora stabilmente, e non trova lavoro per colpa sua.

Ecco che nel finale di quella mail io invito il mio amico a tenere sempre alta la testa, a far valere la sua persona e le sue competenze. Quello che non potevo sapere, allora, era che la pazienza e la costanza da me invocate spesso cozzano contro la vita quotidiana. Per quanto tu possa essere forte, se dopo 1-2-3-4 anni continui a vivere una delusione dopo l’altra, allora la tua resistenza è messa a dura prova. E non tutti siamo come re Leonida del film 300.

Inoltre, lo studente universitario un po’ studia, un po’ esce con gli amici, ogni tanto dà un esame. La vita del lavoratore è diversa, costante per l’appunto: ogni mattina esci di casa, vai in ufficio, fai le tue 8 ore, torni a casa (molto) stanco. E il giorno dopo si riparte.

Non mi stancherò mai di ripetere che ognuno è tenuto a conoscere sé stesso: io capii abbastanza presto che la vita di ufficio non faceva per me, ma sono passati molti anni prima che capissi quale era la mia vera strada e che potevo farcela lavorando come libero professionista. E – aggiungo – senza l’esperienza maturata negli anni dell’ufficio, col cavolo che adesso potrei fare quello che faccio! È stato facile? No, è stata una fatica tremenda, passando attraverso momenti tremendi.

La mail del 2007 è in fondo l’estremo tentativo di applicare l’idealismo giovanile alla realtà della vita lavorativa. È il grido di una persona che ha passato 22 anni sui banchi di scuola, studiando e leggendo libri, e che adesso si aspetta che tutto questo studio sia degnamente ricompensato. Non sarà così, certamente non nell’immediato.

Nel 2007, e anche prima, in tanti, parenti e amici, mi mettevano in guardia dalle insidie che avrei trovato in seguito. Ma il mio puro idealismo non poteva ascoltarli, dovevo essere ottimista.

Ho imparato qualcosa? Sì, certamente ho capito che l’esperienza non si compra al supermercato, ho vissuto anni difficili e duri, che adesso sono per me un tesoro nella memoria, ma che in quei momenti erano pura sofferenza.

Avrei dovuto fermarmi di più a ripensare il presente, cosa stavo sbagliando, cosa stavo imparando, interrogare maggiormente i miei amici e familiari, chiedere aiuto.

Ho imparato che spesso, nel lavoro da dipendente, è fondamentale essere accondiscendenti con i propri capi, molto più di quanto non sia importante essere bravi e competenti.

Quella scoperta fu per me sanguinosa. Fa parte delle soft skills richieste dalle aziende. Ma che non tutti possiedono per carattere.

In queste settimane si sta laureando un mio amico ferrarese, di nome Alberto, ha studiato comunicazione come me. Vivrà momenti ugualmente difficili? Forse, ma non glielo auguro affatto. Spero però che possa leggere queste righe e trovarci qualche spunto utile per quando inizierà a lavorare nel 2018.

Noi laureati del 2007 dobbiamo fare tesoro della nostra decennale esperienza e donarla a chi inizia adesso l’avventura!

In bocca al lupo, amico mio!


A margine dell’articolo mi sento di ringraziare alcuni dei compagni di corso laureatisi con me in Scienze della Comunicazione pubblica, sociale e politica a Bologna, negli anni dal 2004 al 2007.

Hanno studiato comunicazione e dopo anni avventurosi adesso lavorano, chi più e chi meno, con soddisfazione. E sono tutte persone che meritano e avranno il meglio nei prossimi 10 anni:

Alessia Franceschini, Annalisa Graziani, Antonio Zappulla, Arianna Di Donato, Clarissa Colombo, Claudia Corriero, Dino Guaccio, Erika Bonelli, Francesca D’Ingianna, Giulia Ambrosi, Giulia Carbonetti, Ilaria Beccari, Luca Casadei, Andrea Maurizzi, Nicola Bonazzi, Paola Melli, Pietro DiSi, Roberta Cinus, Rocco Avolio

Grazie amici, grazie!

a casa di Erika  amkci Compass

esperienza, futuro, giovani, laureati, lavoro, pecore, precarietà, scelte

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4 Commenti. Nuovo commento

  • Alberico Gabriel Filippini
    4 Novembre 2017 10:57

    Ricordavo vagamente quella lettera e leggerla a distanza di dieci anni mette i brividi, nonché un pò di nostalgia (bimba mia, sorrisi e nostalgia) per quegli anni in cui tutti avevamo sogni e speranze. Dieci anni dopo che dire, tutti noi abbiamo fatto esperienze sia positive che negative, ma tutte sicuramente costruttive. L’articolo che hai scritto è di grande impatto e credo che lo condividerò sulla mia bacheca di faccialibro. Purtroppo tra i miei pochi amici di facebook credo che pochi avranno la voglia di leggerlo e pochissimi avranno l’acume di capirlo. Ma tant’è, basterebbe che soltanto un paio lo condividessero ancora e ancora e ancora. Ma credo che senz’altro lo farò leggere ad una persona a me molto cara, sono sicuro che saranno parole che le daranno forza e coraggio per il futuro. Ottimo ottimo ottimo lavoro FRENZ. Grandissimo come sempre!

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    • Francesco Relandini
      6 Novembre 2017 18:26

      Grazie tantissimo per le tue bellissime parole, amigo!

      E a proposito di comprendere il mio articolo: non vuole essere un atto di accusa contro un certo tipo di lavoro dipendente da ufficio. Questo è quello che è capitato a me in ambienti, che anche tu potresti raccontare, non particolarmente “piacevoli”.

      Ma ognuno dovrebbe cercare, attraverso esperienze, riflessioni e condivisioni, di scoprire il suo habitat lavorativo ideale. Dipendente o autonomo, al chiuso o all’aperto, a contatto con le persone o con i robot.

      Senza mai dimenticare il difficile contesto in cui viviamo (parlo dell’Italia, naturalmente) e che potrebbe rendere questa ricerca molto più faticosa, ma non meno necessaria.

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  • Caro frenz,
    Crepi il lupo, ma soprattutto grazie per questo splendido articolo.
    È talmente scritto bene che mantiene un senso logico anche se uno prova a leggere solo le parole in grassetto.
    Per scriverlo non hai usato la tastiera di un computer, ma le emozioni della tua esperienza. Ogni esperienza è verità.
    Verità relativa, ma comunque verità.
    L’ideale sarebbe che ognuno di noi raccontasse la propria esperienza nel mondo del lavoro.
    Io sono un laureando e, al momento, non ho abbastanza inchiostro per poterla scrivere.
    Oscar Wilde diceva: “ogni uomo mente, ma dagli una maschera e questo ti dirà la verità”.
    Spero che il tuo blog possa contribuire a farlo.
    Un abbraccio!

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    • Francesco Relandini
      10 Novembre 2017 18:35

      Grazie Nazionale, le tue parole mi fanno un enorme piacere, a maggiore considerando che sei proprio tu quell’Alberto laureato in comunicazione che cito nella parte finale dell’articolo.

      In effetti dici il vero quando affermi che ho scritto quell’articolo sull’onda di un’emozione piuttosto che seguendo unicamente la razionalità. L’unica aggiunta che ho fatto in seguito è stata quella sull’importanza dell’accondiscendenza in azienda. Che può essere letta come essere aziendalisti o diventare degli yes man.

      So anche che, quando si studia all’università, certi pensieri sul lavoro che verrà non si vogliono proprio fare. E si tende, fortunatamente, all’ottimismo. Certe cose, però, meglio saperle prima. E’ quasi come vaccinarsi. E tu inizierai a lavorare proprio nel 2018. Per quel momento mi toccherà scrivere, sempre su questo blog, un vademecum per affrontare il primo anno di lavoro. Chissà se ti piacerà! E penso che una tua foto da laureato ci starebbe molto bene pubblicata in quell’articolo…

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